INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LA RELAZIONE DEL PRIMO PRESIDENTE DELLA CORTE DI CASSAZIONE. 28 GENNAIO 2016

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Dalla lettura della corposa relazione, si evidenzia di particolare rilievo il paragrafo 14 su “LA CORTE DI CASSAZIONE E LE CORTI EUROPEE”, in cui è specificato che: «la Corte di cassazione è attivamente presente nella Rete dei Presidenti delle Corti supreme dell’Unione europea, della quale è Componente, con l’obiettivo di favorire lo scambio di idee e di esperienze su questioni relative alla giurisprudenza, all’organizzazione e al funzionamento delle Corti supreme dell’Unione Europea. Analogamente stretto è il rapporto con la Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la quale si è instaurato un produttivo scambio di esperienze. Il 14 dicembre 2015, a Strasburgo, la Corte di cassazione e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in persona dei rispettivi presidenti, hanno firmato un protocollo che impegna le due Istituzioni a creare reciproci organismi di dialogo per l’attuazione dei principi della Convenzione EDU e per consentire ai giudici nazionali di avere una piena consapevolezza e conoscenza del loro contenuto. L’obiettivo è quello di consentire che la giurisprudenza di legittimità veicoli i principi della Convenzione garantendone stabilità e certezze. Con la firma del suddetto protocollo la Corte di cassazione italiana aderisce ad un progetto sperimentale, già avviato tra la Corte EDU, la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato francesi, per la creazione di una piattaforma virtuale con accesso diretto, riservato alle Corti Supreme, che consentirà, da un lato, ai giudici delle Corti nazionali di conoscere in tempo reale la giurisprudenza europea, e, al contempo, alla Corte EDU di ottenere notizie circa la legislazione e la giurisprudenza delle Corti stesse, relativamente alle questioni all’esame della Grande Camera. Ciò consentirà, a regime, ad ogni Corte di acquisire importante materiale di conoscenza degli altri Paesi, dando così una spinta significativa alla comparazione degli ordinamenti».
Parimenti, si evidenzia il successivo paragrafo 15.2 su “LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE SUI DIRITTI FONDAMENTALI”, in cui si legge che «In tema di tutela dei diritti fondamentali della persona, le Sezioni Unite con le pronunce sul “danno da nascita” e sul “danno di morte” (sentenze nn. 25767 e 15350) hanno affrontato temi sensibili e complessi della bioetica, quali l’inizio e la fine della vita umana, evocanti, nella prospettiva propria del diritto, la fondamentale questione della soggettività giuridica, dedicando spiccata attenzione agli aspetti comparatistici emergenti dalla giurisprudenza delle Corti supreme, sia di common law che di civil law, interrogandosi sul ruolo e sui confini della giurisdizione in tali ambiti. Sul danno da nascita (n. 25767) le Sezioni Unite hanno negato la risarcibilità del danno da vita ingiusta, per tale intendendosi la condizione sfavorita nella quale versa il bambino con gravi disabilità congenite, colpevolmente non diagnosticate dal medico in fase prenatale. Con richiamo della giurisprudenza anglosassone e dell’evoluzione dell’ordinamento francese, le Sezioni Unite hanno ritenuto decisivo non il profilo della esistenza della soggettività giuridica, ma la mancanza di nesso eziologico tra l’omissione diagnostica del medico e la vita handicappata del nato, escludendo che possa concepirsi un danno “legato alla stessa vita del bambino”. Non hanno tralasciato di sottolineare che l’imputazione del danno conferirebbe alla responsabilità civile “un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale” e che il riconoscimento del “diritto a non nascere se non sano” costituirebbe un’autentica creazione di giurisprudenza normativa, inaccettabile nel sistema delle fonti. Sul danno tanatologico (n. 15350) le Sezioni Unite hanno negato la risarcibilità a titolo ereditario del danno da morte immediata, per tale intendendosi la perdita della vita che segua immediatamente o entro brevissimo tempo alle lesioni da fatto illecito. Hanno così assicurato continuità all’orientamento tradizionale conforme agli orientamenti della giurisprudenza delle Corti di legittimità europee, ed hanno respinto la suggestione di accentuare la funzione deterrente della responsabilità civile attraverso i «danni punitivi». La Prima Sezione, poi, con altre due importanti decisioni, ha affrontato il tema dei diritti delle persone transessuali. Due sono stati i profili esaminati: quello della necessità o meno della previa modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari ai fini della rettificazione di attribuzione di sesso (n. 15138); quello delle conseguenze di tale rettificazione sul matrimonio della persona coniugata (n. 8097). In ordine al primo profilo (sentenza n. 15138), al centro della decisione è stato posto il bilanciamento tra il diritto all’identità di genere e l’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche. Sulla base del progressivo sviluppo della scienza medica, della psicologia e della psichiatria, in parallelo con la crescita di una cultura dei diritti dei transessuali, la Corte ha escluso un contenuto precettivo univoco delle disposizioni di legge (artt. 1 e 3 della legge n. 164 del 1982), nel senso della necessità della modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari, interpretando tali disposizioni alla luce dei principi della Costituzione (artt. 2, 3 e 32) e della CEDU (art. 8), che riconoscono il diritto ad autodeterminarsi in ordine all’identità di genere, così ritenendo non necessario il preventivo intervento chirurgico. Quanto al bilanciamento del diritto all’identità di genere con l’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche, la Corte ha individuato il punto di equilibrio alla stregua del principio di proporzionalità, ed ha escluso la necessità del sacrificio del diritto fondamentale per garantire la certezza della distinzione tra i generi e delle relazioni giuridico-sociali. La Corte ha reputato che le caratteristiche del percorso individuale di realizzazione dell’identità di genere inducono a ritenere, anche alla stregua delle coincidenti indicazioni delle scienze medica e psicologica, che “il mutamento di sesso sia una scelta personale tendenzialmente immutabile, sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari estetico somatici ed ormonali”. Successivamente, tale decisione ha ricevuto l’avallo del Giudice delle leggi (sentenza n. 221 del 2015) che, con una pronuncia interpretativa di rigetto, ha escluso che le disposizioni legislative, interpretate in senso conforme agli artt. 2 e 32 Cost. e all’art. 8 CEDU, impongano la necessità del «ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali».